“La riorganizzazione dei servizi di accoglienza sta creando disagio tra i cittadini”


Nadia Okbani è docente di scienze politiche all'Università di Tolosa - Jean Jaurès (Istituto Tecnico Universitario di Figeac), specializzata in politiche sociali e accesso ai diritti. Dopo aver lavorato alla sperimentazione e all'implementazione dell’RSA (ndt.: Revenu de solidarité active - Reddito di solidarietà attiva), si occupa ora della digitalizzazione dell'azione sociale e delle procedure amministrative. In questa intervista, Nadia Okbani analizza le conseguenze delle politiche della dematerializzazione dei servizi pubblici per gli operatori sociali e per i loro destinatari.
Intervista inizialmente pubblicata nel 2022 su La Revue NEC locaux, rivista curata dall'Agence nationale de la Cohésion des Territoires (ANCT - ndt.: Agenzia Nazionale francese della Coesione Territoriale). L'intervista nel suo contesto e il resto dell’approfondimento dedicato al lavoro sociale e alla mediazione digitale sono disponibili a questo link .
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Lei ha iniziato la sua ricerca nel 2009, in un momento in cui la dematerializzazione non era un fenomeno così diffuso come oggi. Come ha percepito l'arrivo della tecnologia digitale nel campo dell'assistenza amministrativa e sociale?
Nadia Okbani: La dematerializzazione delle procedure amministrative più comuni fa parte del programma di riforma dello Stato avviato dal governo nell'ottobre 2017. Ma già in precedenza, durante le mie indagini presso una CAF (Caisse d'allocations familiales - ndt.: Ufficio di previdenza sociale in Francia), avevo potuto osservare la graduale diffusione delle procedure online e le questioni che il fenomeno poteva sollevare a livello organizzativo e dal punto di vista dei beneficiari. Si tratta di un'importante trasformazione nel modo in cui vengono attuate le politiche pubbliche e ha un impatto diretto sulle modalità di interazione dei cittadini con lo Stato. I cambiamenti nelle modalità di accesso alle procedure amministrative richiedono competenze digitali che il pubblico non necessariamente possiede. È stato ancora più interessante perché nei miei primi lavori ero giunta alla conclusione che esisteva già un numero enorme di problemi amministrativi in termini di accesso ai diritti, senza quelli generati dalla dematerializzazione.
Può illustrare brevemente i problemi di accesso ai diritti che ha riscontrato prima dell'introduzione delle politiche di dematerializzazione?
All'inizio degli anni 2010, mi sono interessata al mancato ricorso al Reddito di Solidarietà Attiva. Ho potuto constatare che, prima della stessa dematerializzazione del sistema, esistevano già varie forme di mancato ricorso al diritto da parte di persone che non erano a conoscenza della possibilità di usufruirne, di altre che ne erano a conoscenza ma che non si identificavano con i lavoratori poveri cui il dispositivo è destinato, o non capivano come far rientrare la propria situazione nella casistica prevista, senza l'assistenza di un esperto. C’erano anche persone frenate dallo stigma associato all’RSA o da una cattiva esperienza passata con le istituzioni. Per altri, il non usufruirne, era una forma di opposizione politica alla previdenza pubblica e alle modalità di funzionamento della protezione sociale.
Queste diverse forme di mancato utilizzo non sono di esclusiva responsabilità dei beneficiari. Mettono direttamente in discussione la complessità del dispositivo e i metodi utilizzati dalle autorità pubbliche per metterlo in atto. Per quanto riguarda la prestazione RSA, ho osservato una serie di inadeguatezze nel sistema nei confronti della popolazione target. Per fare un esempio, una delle caratteristiche dei lavoratori identificati come “poveri” è l'instabilità dell’impiego. Tuttavia, l'RSA prevede l’archiviazione dei loro dossier presso gli uffici previdenziali CAF dopo alcuni mesi di non idoneità, il che significa che l'intera procedura deve essere ripetuta regolarmente. In questo caso, sono il sistema e il modo in cui è strutturato a non essere adatti al pubblico di riferimento.
È poi interessante esaminare ciò che l'istituzione fa e può fare per promuovere l'accesso ai diritti. La scarsa conoscenza di un servizio può essere determinata dall’inadeguata comunicazione da parte dell’istituzione erogatrice. Ho condotto uno studio nel quale abbiamo cercato di identificare i potenziali beneficiari dell’RSA partendo dai dossier in possesso delle CAF. Contattando e informando queste persone è stato possibile un accesso ai diritti accresciuto di circa il 10%. Ciononostante, questo risultato non è compatibile con le logiche di gestione ad oggi in atto. Per quanto riguarda la convenzione sugli obiettivi e la gestione delle CAF, promuovere l'accesso ai diritti significa anche aumentare il carico di lavoro dei dipendenti... E, dunque, peggiorare gli indici di performance.
In questo contesto, la questione delle competenze amministrative degli individui o della loro capacità di circondarsi delle persone giuste per poter avviare e portare correttamente a termine le pratiche necessarie passa in secondo o addirittura in terzo piano.
Negli ultimi tre anni, l’autorità amministrativa indipendente francese conosciuta come Défenseur des droits ha regolarmente messo in guardia dalle conseguenze della dematerializzazione sulle disuguaglianze nell'accesso ai servizi pubblici. Cosa ha avuto modo di osservare sul campo?
In seguito alla pubblicizzazione del lavoro sul mancato ricorso all’RSA, la dematerializzazione delle procedure amministrative è stata rapidamente presentata come una soluzione per promuovere un accesso più ampio ai diritti. In pratica, la dematerializzazione è stata al centro di importanti trasformazioni in seno alle amministrazioni. Per le CAF, questo ha comportato un cambiamento nel modo di accogliere il pubblico. In un primo momento, i beneficiari vengono orientati verso il sito web caf.fr. Gli sportelli di accoglienza fisici non fanno eccezione alla regola. Una volta presso gli uffici, agli utenti viene richiesto di completare autonomamente le procedure online attraverso un computer messo a disposizione.
Dal punto di vista organizzativo, questa trasformazione è accompagnata da una ristrutturazione del personale. Presso gli sportelli di accoglienza sono presenti “consulenti di servizio” che si rivolgono ai richiedenti non informati sulla gestione dei loro diritti: il loro compito principale è quello di aiutare i beneficiari a completare le procedure. A differenza dei consulenti tecnici presenti in precedenza presso gli sportelli di accoglienza, i consulenti di servizio non hanno accesso ai software professionali e non possono intervenire nel trattamento delle pratiche. Ciò significa che i richiedenti sono tenuti a distanza dai professionisti più competenti, alla cui consulenza si può avere accesso soltanto su appuntamento, da prendere per telefono o su internet. Di fatto, però, i soggetti che continuano a recarsi presso gli sportelli fisici sono tra i più precari e socialmente svantaggiati; vi si recano, prima di tutto, per cercare aiuto e sostegno.
Questa riorganizzazione dei servizi di accoglienza crea frustrazione e disagio tra le persone che non riescono a ottenere risposte alle loro domande, con tutte le conseguenze sociali che ne derivano: affitti non pagati, sfratti, disuguaglianze sociali nell'accesso all'assistenza sanitaria, deterioramento della salute fisica e mentale, e così via. Possiamo trovarci rapidamente di fronte a un accumulo di problemi sempre più difficili da risolvere.
Ciò che lei descrive mostra una comprensione dei problemi di accesso ai diritti molto incentrata sugli strumenti. È come se, con la dematerializzazione, il mancato utilizzo dei servizi si riassumesse in un problema di accesso a un computer, o simili.
Il digitale è stato fortemente mitizzato. Nelle CAF che ho osservato, il computer in dotazione ha accesso esclusivo al sito caf.fr, il che significa che non è possibile completare la pratica di accesso al diritto nella sua totalità. È difficile caricare un documento sul proprio account e completare il proprio dossier se non si può accedere a un altro sito o alla propria casella di posta elettronica, soprattutto se il computer non è collegato a uno scanner.
È innegabile che la trasformazione digitale rappresenta un vantaggio per un'ampia fetta della popolazione, in particolare quella socialmente più avvantaggiata. Ma se si osservano le cifre più da vicino, ci si rende conto che le persone che hanno più difficoltà con la dematerializzazione sono anche le più precarie e vulnerabili. In realtà, questo gap digitale e nella possibilità di accesso ai diritti non fa altro che riprodurre delle forme di disuguaglianza.
Particolarmente preoccupante è la discrepanza tra il supporto per lo svolgimento delle pratiche online offerto dagli sportelli fisici e le esigenze delle persone in difficoltà. È sempre più difficile trovare professionisti competenti in materia di gestione dei diritti sociali. Questo provoca tensioni che vengono interpretate dalle amministrazioni come inciviltà o reazioni eccessive. Negli ultimi anni, la presenza degli agenti di sicurezza è aumentata al punto che, presso gli uffici di accoglienza, se ne ritrovano quasi tanti quanti sono i consiglieri. Praticamente, le prime persone con cui i richiedenti entrano in contatto sono gli agenti della sicurezza e non il personale dell’ufficio.
In che modo queste nuove modalità di ricezione stanno influenzando l’accesso degli utenti ai loro diritti?
L’ambiente che ci circonda gioca un ruolo importante. Quando ci si trova in un ambiente in cui molte persone beneficiano dell’RSA, è molto meno stigmatizzante e più facile accedere a informazioni e aiuto. E anche vero che questo presuppone una certa disponibilità e fiducia in questo ambiente. Penso in particolare alle persone anziane che prima sbrigavano tutte le formalità da sole e ora si trovano a dover mostrare tutti i loro documenti a qualcun altro che le aiuti, il che può provocare un certo imbarazzo. Prima della dematerializzazione erano autonome nello svolgere le pratiche necessarie, ma ora non lo sono più.
Il lavoro amministrativo, precedentemente assicurato da personale competente all'interno delle amministrazioni pubbliche, è ora una responsabilità individuale degli stessi beneficiari. E se l'utente non ha la capacità amministrativa, sociale o digitale per farlo, o di farsi guidare da chi lo circonda, questo lavoro sarà trasferito, tacitamente o esplicitamente, ad altri attori del territorio, in particolare ai servizi sociali dei vari dipartimenti o ai CCAS (Centri Comunali di Azione sociale) e ai CIAS (Centri Intercomunali di Azione Sociale). Il problema è che ciascun dipartimento ha già le sue missioni e i suoi poteri. Ho avuto modo di osservare sul campo come ciascuna Maison départementale (enti dipartimentali con lo scopo di aiutare gli utenti del servizio pubblico) fornisse risposte molto diverse, al livello della direzione, della gestione e degli stessi operatori sociali. Alcuni di essi, infatti, ritenevano che questo tipo di azioni non fossero incluse nelle loro mansioni, altri, invece, le percepivano come un modo per iniziare a costruire una relazione con i destinatari e, dunque, condurli verso altre forme di accompagnamento.
Questo trasferimento di responsabilità porta a tensioni politiche tra le direzioni amministrative e i dipartimenti, che molto spesso si traducono nello sballottamento dei richiedenti tra un ente e l’altro. Gli utenti tenderanno quindi a rivolgersi al settore del volontariato: associazioni comunitarie, enti di beneficenza o associazioni locali come i centri sociali. Se alcune di queste strutture sono state riconosciute dalle CAF come “points relais CAF” (ndt.: letteralmente, punti di collegamento CAF) e hanno potuto beneficiare di finanziamenti e formazioni, la maggior parte mette a disposizione del pubblico animatori socioculturali, volontari o addetti al servizio civile, che non sono necessariamente a loro agio con il digitale, né abituati a lavorare con persone in situazioni precarie, né tantomeno competenti nell'accompagnamento nelle pratiche amministrative. Inoltre, la domanda è tale che mi chiedo se queste strutture siano in grado di continuare a concentrarsi sul loro nucleo principale di attività, ovvero l’assistenza sociale, l'educazione popolare, l'animazione socioculturale, ecc.
In sintesi, la distanza tra il personale amministrativo e i luoghi di accoglienza sta ridefinendo il carico di lavoro e il ruolo di ciascuno degli attori sul territorio. Di conseguenza, si assiste a un allungamento dei percorsi di accesso ai diritti, che a ogni fase può portare allo scoraggiamento o addirittura al mancato ricorso ai servizi disponibili. Ancora più preoccupante, questa situazione apre la strada allo sviluppo di servizi lucrativi di accesso ai diritti, che sono tuttavia illegali.
Come viene vissuta questa dematerializzazione e questa riconfigurazione del lavoro amministrativo sul territorio da parte degli operatori sociali?
In primo luogo, gli operatori sociali si trovano di fronte a due diverse dinamiche di digitalizzazione. Da un lato, la dematerializzazione delle procedure amministrative che sta creando una nuova domanda sociale e contribuendo a ridefinire i contorni della loro professione. Dall’altro, la digitalizzazione degli strumenti di lavoro. Quest'ultimo aspetto è considerato più positivamente nel caso di strumenti che migliorano l’accompagnamento e l’accoglienza dei richiedenti. Quando una persona arriva al centro, per esempio, possiamo facilmente scoprire se è stata già seguita in seguito a episodi di violenza coniugale e, dunque, orientare meglio l’accompagnamento. Ma la digitalizzazione va anche di pari passo con l'implementazione di logiche gestionali che generano ulteriore lavoro amministrativo e riducono il tempo da poter dedicare agli utenti.
La combinazione di queste due dinamiche dà luogo a una serie di reticenze legate in particolare alla cultura professionale del lavoro sociale, che si basa sul contatto, sull'interazione e sulle relazioni faccia a faccia. Per molti, questo aspetto relazionale è alterato dall'uso del computer, che li allontana dal nucleo centrale del loro lavoro, ovvero la cura del pubblico, la protezione dell'infanzia, il sostegno alla genitorialità o, ancora, il supporto alle donne vittime di violenza. Questa lontananza è caratterizzata dalla sovrarappresentazione di attività considerate come “lavoro sporco”, cioè compiti gestionali o amministrativi, nonché l'esecuzione di procedure online per o per conto degli utenti, che non consentono di adottare la posizione relazionale, di ascolto e di domanda/risposta tipica del supporto sociale. Questo distorce l'immagine che le persone che lavorano nel sociale hanno della loro stessa professione.
Ciò è tanto più difficile se si considera che gli stessi operatori sociali sono sempre più indirizzati verso piattaforme digitali dove non hanno più il margine di manovra e l'interconoscenza che consente loro di agire sulla situazione dei beneficiari. Il ripetersi di queste situazioni di insuccesso porta i professionisti a mettere in discussione l'utilità sociale della loro professione e alcuni scelgono di abbandonare il settore.
A questo disagio vanno ad aggiungersi i problemi di competenze e risorse. Ho infatti potuto constatare forti opposizioni da parte degli operatori nel settore sociale che non si sentivano competenti e che riscontravano loro stessi delle difficoltà con gli strumenti digitali… Senza contare la mancanza di accesso a materiale informatico di qualità e l'inadeguatezza degli spazi di lavoro, che li costringono a spostarsi continuamente da un piano all’altro per scannerizzare o stampare documenti. È un effetto strutturale che ha un impatto non solo sul lavoro, ma anche sulla capacità e sulla sensazione di fare bene il proprio lavoro.
Nel 2019 ha seguito diverse sperimentazioni per l’Institut Régional du Travail Social de Provence - Alpes - Côte d'Azur - Corse (ndt.: Istituto Regionale Lavoro Sociale PACA e Corsica). Quali insegnamenti è possibile trarne per l'attuazione di una politica locale di inclusione sociale e digitale?
Nel corso delle mie indagini, continuo a riscontrare logiche di ripartizione del pubblico e delle competenze, senza che ci sia un'istituzione chiaramente identificata capace di fornire supporto all'accesso ai diritti. I richiedenti si trovano sballottati da una struttura all'altra, senza mai incontrare un professionista specificamente formato su questi temi. E la logica della dematerializzazione dei servizi pubblici non aiuta affatto. Prima c'erano professionisti capaci di creare un collegamento e di indirizzare le persone verso le strutture giuste. Ora è più complicato. Il beneficiario è solo davanti a un computer con procedure dematerializzate segmentate per servizio e per istituzione.
Sono ancora pochi i territori che hanno programmi di accesso ai diritti, o quantomeno un documento che elenchi le strutture di supporto, i diritti nazionali, i diritti locali, le forme di aiuto stragiudiziali, ecc. Un primo passo potrebbe essere quello di riunire tutti gli attori del supporto sociale, digitale e amministrativo di un territorio per avere una visione a tuttotondo su ciò che viene fatto e concepire politiche locali di inclusione a partire dalle risorse esistenti. Questo comporterebbe uscire da una logica di sovrapposizione di dispositivi che spesso perturba la chiarezza d’insieme e l’accettazione, da parte delle istituzioni, di lavorare in modo trasversale. Dobbiamo ricreare un legame tra le strutture e a tutti i livelli.
Per essere utile, questo lavoro di trasversalità dovrebbe partire dai bisogni dei vari pubblici e dalle loro specificità. Partire dall’identificazione dei percorsi che possono portare al mancato ricorso ai servizi, per dare una risposta concreta ai problemi riscontrati singolarmente dai potenziali richiedenti. YB
Ulteriori informazioni:
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[Traduzione : NSS EPALE France]