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Migranti e formazione professionale: una ricerca "bottom up"

Chi sono i migranti, quali competenze professionali possono offrire al mercato del lavoro europeo, come coinvolgerli nei circuiti della formazione professionale continua e avviarli efficacemente al lavoro? A queste e ad altre domande ha cercato di rispondere una ricerca sociale di tipo qualitativo condotta nell’ambito del progetto “MiGreat! – Supporting Migrants into Continous Vocational Education and Training”, co-finanziato dal programma Erasmus Plus dell’Unione europea [1] e dalla “Fondazione per la cooperazione confederale” della Confederazione Elvetica.

Chi sono i migranti, quali competenze professionali possono offrire al mercato del lavoro europeo, come coinvolgerli nei circuiti della formazione professionale continua e avviarli efficacemente al lavoro? A queste e ad altre domande ha cercato di rispondere una ricerca sociale di tipo qualitativo condotta nell’ambito del progetto “MiGreat! – Supporting Migrants into Continous Vocational Education and Training”,  co-finanziato dal programma Erasmus Plus dell’Unione europea [1] e dalla “Fondazione per la cooperazione confederale” della Confederazione Elvetica.

Il progetto è stato avviato nel settembre 2016 da un partenariato guidato dall’ente italiano “Training 2000” e composto da altre sei organizzazioni che si occupano di innovazione nella formazione professionale, formazione a distanza e inclusione sociale: la svedese Elderberry, l’austriaca BEST, l’inglese ELearning Studios, la greca KMOP, la svizzera SEED e l’italiana Glocal Factory.  

Lo scopo finale di MiGreat! è di produrre strumenti innovativi, tra i quali un’app gestibile con qualunque dispositivo mobile e una piattaforma per l’apprendimento a distanza, da mettere a disposizione degli stessi migranti e degli operatori della formazione professionale. Per raggiungere questo scopo i Partner hanno dovuto anzitutto condurre una ricerca qualitativa sui fabbisogni formativi, sia utilizzando i dati già resi disponibili dalle statistiche ufficiali e dalla letteratura scientifica, sia ricavando nuove informazioni da indagini dirette sul campo. I partner del progetto, coordinati dall’ente Training 2000, hanno infatti intervistato, nei rispettivi paesi,  120 esperti operanti nella formazione professionale e in sette comparti fondamentali sia per l’economia europea che per l’impiego dei migranti: agricoltura, edilizia, tessile, servizi socio-sanitari, commercio al dettaglio, servizi alle aziende e turismo. Per l’Italia, sono stati posti sotto analisi i primi tre settori. Gli esperti intervistati sono manager della formazione professionale, dirigenti di organizzazioni che si occupano di accoglienza e inclusione dei migranti (compresi i richiedenti asilo e i profughi), dirigenti di amministrazioni pubbliche e centri pubblici per l’impiego, esperti indipendenti e rappresentanti di organizzazioni economiche di categoria.

In questo articolo riassumiamo i principali elementi che emergono dalla ricerca e che riguardano l’Italia.

 

Qualche numero per uno sguardo d'insieme

Nel 2015 il numero di migranti residenti nel nostro Paese e in grado di lavorare (dai 15 anni in su) era intorno ai 4 milioni. Di questi, 2.359.065 erano impegnati in un’attività lavorativa, 456.115 stavano cercando lavoro e 1.270.242 erano disoccupati.

Le donne migranti continuano a essere le più penalizzate nel mercato del lavoro. La disoccupazione delle donne provenienti da alcuni Paesi è molto alta (il 67,3% delle pakistane, il 62,1% delle egiziane, il 44,1% delle tunisine e il 37,2% delle ghanesi risultano ufficialmente disoccupate e in cerca di lavoro), ma ancora più complesso è il fenomeno dell’inattività: ad esempio, il tasso di inattività per le donne provenienti da Pakistan, Egitto , Bangladesh e India è superiore all’ 80%, contro una media nazionale femminile del 60,2%[2].

Il Nord-Ovest è la parte dell’Italia con il più alto numero di lavoratori extracomunitari (571.000), seguita dal Nord-Est (poco meno di 400.000). I lavoratori stranieri ma cittadini dell’Unione europea sono principalmente presenti nel centro Italia. Vi sono comunità  extracomunitarie  “concentrate” prevalentemente in alcuni settori specifici: ad esempio, il 68,5% dei filippini presenti in Italia, il 66,8% degli ucraini, il 54,8% degli srilankesi e il 49,7% dei moldavi lavorano nel settore dei servizi e della cura alla persona. La maggior parte dei lavoratori provenienti da Ghana (57,9%), India (35,3%), Pakistan (35,2%), Cina (27,2%) e Marocco (26,9%) lavorano nel settore industriale. Nel settore edile, c’è un’importante presenza di albanesi (27%) e tunisini (14.5%).[3]

La maggior parte degli immigrati lavorano come dipendenti in aziende di piccole, medie e grandi dimensioni. Il dato comune è la loro collocazione ai livelli più bassi delle gerarchie aziendali: solo lo 0,9% ha ruoli manageriali o superiori, in contrasto con il 7,6% degli occupati italiani.

Dall’analisi sul livello di istruzione degli immigrati risulta che c’è un sostanziale squilibrio tra il loro livello di istruzione e il lavoro che svolgono: gli immigrati sono principalmente impegnati in lavori manuali non qualificati, a prescindere dalle competenze e del livello di istruzione.

Inoltre, i dati disponibili rivelano che gli immigrati percepiscono una remunerazione economica più bassa se comparata a quella degli italiani: il 76,9% dei lavoratori migranti provenienti da altri paesi UE e l’ 80,8% di quelli extracomunitari guadagna meno di 1.200 euro al mese, mentre questa percentuale scende al 56,5% nel caso degli italiani. Il 35,3% dei laureati extracomunitari, il 18,3% dei migranti UE e solo il 6,5% degli italiani riceve meno di 800 euro al mese.

In sostanza, a caratterizzare la posizione dei migranti rispetto al mondo del lavoro, nel nostro Paese, sono ancora tassi significativi  di disoccupazione e inattività, particolarmente elevati per le donne,  e forti discriminazioni nella posizione gerarchica e nella retribuzione.

 

Ricerca del lavoro, formazione professionale e riconoscimento delle competenze pregresse

Il 52,6 %  degli immigrati in cerca di un lavoro ha contattato un ufficio di collocamento per trovare un’occupazione, il 25,9% lo ha fatto per confermare il proprio stato di inattività, il 22% per aggiornarlo, il 13,9% per iscriversi al servizio e il 6,7% per formulare una dichiarazione di immediata disponibilità a lavorare. Solo una piccola percentuale degli immigrati cerca un lavoro sfruttando la guida e i consigli degli uffici pubblici per l’impiego. Solo lo 0,4% di quanti si sono iscritti ha ricevuto un’offerta di lavoro e la stessa percentuale, un’offerta per un corso di formazione.

Gli immigrati rappresentano una percentuale davvero piccola sul totale dei partecipanti ai corsi di formazione professionali. Nel caso degli immigrati che lavorano, solo il 5,6% ha partecipato ai corsi, comparato al 10,9% degli occupati italiani. Lo stesso dicasi per le persone in cerca di un lavoro  (5,2% di immigrati UE e il 6,5%  di extracomunitari). E questo nonostante un ingente sforzo del Ministero del Lavoro, di Italia Lavoro, delle Regioni e degli enti locali, anche attraverso l’impiego dei fondi UE.

Una nota particolare merita l’impegno degli enti locali: nonostante i Comuni non siano formalmente coinvolti nell’incontro tra domanda e offerta di lavoro, spesso i loro uffici sono l’unico punto di riferimento per gli immigrati. In giro per la penisola, molti Comuni hanno attivato servizi per aumentare l’opportunità di trovare lavoro per i migranti, in particolare nel settore della salute e della cura degli anziani.  

E’ opinione diffusa, anzi praticamente unanime, che la conoscenza della lingua italiana sia, per i migranti, il principale requisito per aumentare la possibilità di trovare lavoro. Dal 2012, con il “Patto d’Integrazione” che lo Stato propone  ai nuovi arrivati è richiesto, entro due anni dal momento dell’arrivo, l’acquisizione almeno del livello A1 della lingua italiana. Il governo ha fortemente finanziato questo sistema di apprendimento e il numero dei partecipanti ai corsi risulta in rapida crescita. In prima fila, in questo sforzo di alfabetizzazione nella nostra lingua, vi sono i CPIA (Centri provinciali per l’Istruzione degli Adulti, ex CTP, uno per ciascuno delle 93 province e dei 14 distretti metropolitani), i quali, in più di 5000 punti di erogazione dell’offerta formativa, lavorano anche per offrire agli immigrati la possibilità di ottenere un diploma di scuola secondaria di primo grado.

Per quanto riguarda invece il riconoscimento delle competenze pregresse (in inglese APL - Acknowledgement of Previous Learning), la disponibilità delle informazioni statistiche è parecchio limitata: fatto che non sorprende, visto la recente introduzione di questa opportunità nel contesto italiano e il suo utilizzo ancora scarso e frammentario.

Il tema si può dividere in due aspetti:

  • il riconoscimento dei percorsi di istruzione formale seguiti nel paese di origine, e delle relative qualifiche conseguite;
  • il riconoscimento di quanto acquisito in percorsi di apprendimento non formale e informale.

In  generale, possiamo affermare che questo riconoscimento è richiesto da percentuali veramente esigue dei migranti, a causa di diverse difficoltà, prima fra tutte la complessità delle procedure. Gioca anche il fatto che gli operatori, compresi gli addetti di pubbliche amministrazioni e di centri pubblici per l’impiego, dimostrano scarsa preparazione sull’argomento e quindi non sono in grado di dare un’adeguata consulenza ai migranti. Tra i pochi immigrati che si fanno avanti, molti poi rinunciano a percorrere fino in fondo la procedura che porta a validare e certificare le competenze già possedute, a causa dei tempi lunghi, dei costi e dell’incertezza del risultato.

 

La parola agli stakeholder: necessità e raccomandazioni

La ricerca sul campo condotta dai partner italiani di MiGreat!, per quanto circoscritta ad un campione piuttosto limitato di stakeholder, ha messo in luce alcuni elementi importanti  per migliorare sia le politiche che le prassi in materia di formazione professionale continua e di APL.

Partiamo da quelli che gli esperti considerano i fabbisogni formativi più rilevanti, riferiti alla platea di occupati o potenziali occupati con background migratorio.

Per quanto riguarda il comparto agricolo, la prima esigenza formativa riguarda la sicurezza sul lavoro, connessa all’uso di automezzi e attrezzature di vario genere (tra l’altro, è stato sottolineato come il possesso della patente di guida per i mezzi agricoli aumenti considerevolmente le chances di occupazione per chi sia alla ricerca di un lavoro). La seconda esigenza riguarda invece la formazione all’utilizzo di tecniche produttive moderne, basate anche sull’automazione dei processi. Ancora, è fondamentale la padronanza della lingua specifica (cioè di un ricco vocabolario di termini tecnici). Infine, secondo gli intervistati, tutto il settore trarrebbe beneficio da un’ampia opera di sensibilizzazione sui diritti dei lavoratori in generale e dei migranti in particolare, anche per evitare fenomeni di “dumping sociale”.

Anche nel settore dell’edilizia è cruciale la formazione sui temi della sicurezza. Riveste poi grande importanza la formazione tecnica, che dovrebbe essere maggiormente articolata su diversi livelli di qualificazione  corrispondenti ai diversi profili professionali (e da questo punto di vista gioverebbe molto un efficace sistema di verifica e riconoscimento delle competenze dichiarate dai lavoratori). Anche in questo comparto, il possesso di licenze per la conduzione di automezzi e macchinari aumenta enormemente la possibilità di assunzione.

Alle stesse conclusioni giungono gli esperti del settore tessile. Anche qui, la sottolineatura è da un lato sulla capacità di operare con macchinari complessi, dall’altro sull’APL. 

Trasversalmente ai tre settori produttivi, i migranti appena arrivati – a giudizio degli esperti intervistati -devono essere assolutamente informati su come funzioni il mercato del lavoro in Italia e sugli usi e i costumi della società che li ospita. Tutto ciò ha come prerequisito un adeguato livello di comprensione e padronanza della lingua italiana. 

Per quanto infine concerne l’APL, considerando la frammentarietà del processo e delle procedure, è necessario migliorare la preparazione degli operatori dei servizi e rinforzare la rete tra le parti interessate (servizi sociali e per l’impiego, associazioni di immigrati, agenzie per il lavoro, autorità) per promuovere un corretto ed efficace lavoro di comunicazione rivolto ai migranti.

 

Ringraziamenti

Un particolare ringraziamento alla dr.ssa Ester Trivella per la conduzione delle interviste in Italia e a Cosimo Orecchio per la traduzione dei materiali dall’inglese all’italiano.

Attilio Orecchio, presidente dell’Associazione di promozione sociale “Glocal Factory”, Italia

 

[1] Il supporto della Commissione europea per il progetto MiGreat! e quindi per la produzione di questo articolo non costituisce approvazione dei suoi contenuti, che riflettono il solo punto di vista dell’autore. La Commissione non può essere ritenuta responsabile di qualunque uso venga fatto delle informazioni qui contenute. Lo stesso dicasi per la “Fondazione per la Cooperazione confederale” della CH.

[2] Sesto Rapporto annuale. I migranti nel mercato del lavoro in Italia - Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali 2016.

[3] Ibidem.

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