Lo sport come strumento di inclusione sociale per i detenuti
L’ozio e l’inattività legati alla permanenza in carcere producono effetti devastanti sul fisico dei detenuti: perdita dell’equilibrio, riduzione delle capacità respiratorie, indebolimento dell’apparato cardiovascolare, muscolo scheletrico, del sistema endocrino-metabolico.
Un ostacolo al processo di rieducazione che dovrebbe rappresentare l’obiettivo primario del sistema penitenziario. Lo sport, l’esercizio fisico strutturato e programmato abbassano le tensioni emotive, riducono le malattie e potenzialmente la stessa spesa sanitaria, aiuta il detenuto a vivere meglio in un ambiente spesso sovraffollato e privo di risorse e stimoli.
Lo sport e l’attività fisica negli istituti penitenziari tutelano il pieno benessere psico-fisico e sociale dei detenuti, i fortissimi valori etici, epistemologici e più semplicemente pragmatici dello sport quali rispetto di sé, degli altri, assumono operativamente un significato dal sapore immediato: riuscire a giocare e godere di quel senso di creatività e libertà che è insito nel gioco stesso. Lo sport può rappresentare per il detenuto uno strumento di crescita culturale e soprattutto, umana, un momento di confronto con persone, origini culture e nazionalità diverse. Si propone un’attività sportiva e motoria strutturata nelle carceri proposta da personale qualificato, proponendo l’istituzionalizzazione della figura dell’educatore fisico-sportivo come componente stabile nel trattamento rieducativo. Prendersi cura del corpo del recluso, cercare di garantirgli un minimo di benessere fisico, pur in situazioni estreme, è un modo per ricordare a lui, e ricordare a noi, che abbiamo a che fare con delle persone, con le loro responsabilità e le loro colpe, ma anche con i loro bisogni, le loro necessità, i loro diritti. La pena reclusiva non dovrebbe consistere in niente di più che la privazione della libertà; se invece inutilmente e crudelmente affligge, mortifica, mutila la sfera affettiva e fisica, essa si configura come “trattamento inumano e degradante” secondo la definizione del Consiglio d’Europa.
Garantire a queste persone attività fisica e motoria diventa allora uno degli aspetti attraverso i quali impedire alla pena di diventare “pura ritorsione sociale”.
La vera perdita di autonomia, nel vortice di cattivi stili di vita dovuti al regime penitenziario, è rappresentata dalla perdita di autosufficienza. Ciò si traduce per la persona detenuta, nella mancanza più saliente e palese di autonomia personale e di dimensione umana: la perdita della salute, cioè del pieno benessere fisico, psichico e sociale.
Dall’anno 2002 abbiamo organizzato un gruppo di ricerca e portato avanti molte esperienze in ambito carcerario; in un recente studio (2015) è stato attuato un intervento educativo di promozione al “fair play” come modello comportamentale e ne sono stati valutati gli effetti sulle condotte antisportive messe in atto da 22 detenuti durante 20 partite di calcio a 5. Il raffronto tra falli commessi nelle 10 partite precedenti l’intervento e nelle 10 successive ha rilevato una significativa riduzione dei falli totali e dei falli volontari oltre che del numero totale degli infortuni e dei tempi di interruzione di gioco. Facendo sperimentare ai detenuti il valore del rispetto delle regole nel gioco e degli altri, appare chiaro come a guadagnarne siano proprio loro stessi, come “piacere cinestesico” e sociale (il gusto di condividere insieme), attraverso un’attività fluida, senza continue interruzioni, discussioni e persino più sicura sul piano della prevenzione degli infortuni nel calcio.
Sperimentare pragmaticamente l’attività sportiva attraverso il gioco, nella sua essenzialità, significa mettere in atto il rispetto delle regole, di sè, degli altri, vissute non come limite alla propria libertà individuale ma come autentico “plus valore” di condivisione e di tolleranza.
Questi risultati evidenziano la possibilità di potenziare, mediante semplici interventi pedagogici ed educativi mirati, gli effetti positivi dello sport ai fini dell’adozione dei comportamenti socialmente accettati che stanno alla base del reinserimento nella società civile.
La sintesi può essere meglio compresa nelle parole di Don Luigi Ciotti nella stessa prefazione del nostro libro, L’attività motoria nella carceri italiane, (Armando 2010):
“Questo è l’imperativo: riconsegnare alla società una persona responsabilizzata e cosciente, capace a sua volta di restituire positività. Ciò è possibile se quella persona in carcere non si è ammalata, avvilita, incattivita, se davvero il territorio e le istituzioni riescono ad accogliere e ad essere comunità, non solo insieme di regole, pur necessarie”.
Ario Federici, Università degli studi "Carlo Bo", Urbino
Il testo dell'articolo è una sintesi dell'intervento del prof. Federici al seminario EPALE "Itinerari educativi nello sport", Urbino 21 marzo 2016
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Ario Federici, professore associato presso la Scuola di Scienze motorie e Scienze della formazione per l'insegnamento di Metodi e didattica dell’attività motoria e Attività motoria e sportiva per l'età adulta ed anziana. Presidente del Corso di Laurea magistrale in Scienze dello sport. Referente Regione Marche del Comitato Nazionale Fair Play. Collabora con diverse Federazioni Sportive. Ha pubblicato numerosi articoli e testi, ha partecipato a progetti di ricerca e tenuto corsi di formazione e di aggiornamento. Da anni si occupa della sperimentazione diretta alla ricerca di nuove metodiche nel campo delle attività ludico-motorie in ambito scolastico, sportivo e carcerario.
La foto è tratta dal reportage fotografico di Giovanni Mereghetti sugli sport praticati da detenute e detenuti della Casa di reclusione di Milano-Bollate.