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EPALE - Piattaforma elettronica per l'Apprendimento permanente in Europa

Notizie

La glottodidattica per adulti

La glottodidattica si è ampiamente sviluppata in anni recenti, grazie a svariati modelli teorico/pratici e supporti tecnologici. Uno di questi ausili tecnologici è rappresentato dal computer, il quale permette la connessione con tutto il globo attraverso internet. Più specificatamente in questo lavoro tratteremo delle piattaforme didattiche e dei modelli teorici ed epistemologici che soggiacciono all’utilizzo delle medesime in ambito della glottodidassi ad adulti.

Le piattaforme didattiche sono utilizzate quotidianamente da soggetti diversi (didatta, discente, tutor) e con intenti differenti (apprendere nuovi argomenti, valutare, svolgere gli esercizi, ecc.).

Questo lavoro sarà svolto nell’ottica di ricercare la migliore metodologia glottodidattica supportata dalle piattaforme e quella più affine all’ adult learning. Pertanto, dopo un breve cenno a che cos’è l’adult learning e quali sono le sue peculiarità, nel secondo paragrafo analizzerò le finalità degli strumenti tecnologici spramenzionati in tal senso, arricchendolo di concetti teorici fondamentali che supportano questo tipo di strategia didattica.

L’obiettivo di questo lavoro è di fornire un’impalcatura teorica psico-cognitiva e umanistica che permetta di giungere ad adeguati strumenti di valutazione e comparazione delle piattaforme didattiche come supporto all’ adult learning al fine di poter comprendere come sfruttarle al meglio in un contesto educativo.

TEORIE COGNITIVE E ADULT LEARNING

In questo articolo sarà discusso in un primo paragrafo cosa s’intende per apprendimento delle lingue straniere in età adulta, avvalendosi di strumenti teorici e pratici.

In un secondo paragrafo si procederà ad analizzare due teorie dell’apprendimento più in dettaglio, denominate rispettivamente Instructional Design e Cognitive Load Theory, che teorizzano possibili implicazioni positive dell’apprendimento linguistico permanente.

Andragogia e lingue altre: teorie e concetti di base

Discernere l’apprendimento linguistico per fasce di età è tradizionalmente uno degli approcci più adottati in ambito glottodidattico.

Generalmente, vi è l’opinione diffusa (non priva di fondamenti scientifici, grazie ad alcuni studi di neuroscienze) che l’acquisizione di una lingua straniera dovrebbe avvenire nella fascia d’età 0-12 anni, oppure 12-19 anni, per raggiungere livelli di padronanza madrelingua. In questa sede, si vuol far propria l’idea di Villarini e La Grassa quando esprimono che “l’obiettivo della (glotto)didattica non è la padronanza piena e assoluta in L2, [ma una] competenza plurilingue e pluriculturale che dia la possibilità a un individuo di migliorare la propria competenza comunicativa di fondo” (Villarini 2010, 24).

Tuttavia, l’università, l’economia e il periodo storico-sociale nel quale viviamo ci rendono consapevoli che l’approccio tradizionale non soltanto è riduttivistico, ma anche profondamente erroneo e parziale in alcuni dei suoi aspetti. In questo paragrafo si parlerà, pertanto, della storia della glottodidattica ad adulti, per chiarire quali siano le teorie di fondo e le risposte ottenute finora. Sempre in questo paragrafo si cercherà di chiarire quali siano le peculiarità dell’acquisizione della LS in un soggetto di età diversa dall’infanzia, anche portando ad esempio quanto l’Europa ci chiede di fare nel progetto Lifelong Learning[1].

Vi sono innumerevoli teorie che riguardano l’apprendimento e, più dettagliatamente, l’acquisizione di una lingua straniera. Una prima scrematura deve essere fatta innanzitutto tra apprendimento e acquisizione. Dolci e Porcelli riprendono il lavoro di Krashen (1987) [2]:

“secondo Krashen [acquisizione e apprendimento] sono due processi nettamente distinti e indipendenti. L’acquisizione di una seconda lingua è un processo subconscio, del quale però i soggetti non sono consapevoli, il cui esito, la competenza acquisita, è altrettanto subconscio. La capacità di acquisire una lingua non cessa al momento della pubertà, ma rimane un processo molto potente anche nell’adulto. Per apprendimento linguistico invece s’intende lo sviluppo della competenza in una seconda lingua attraverso la conoscenza esplicita di regole grammaticali e liste di vocaboli”. (Dolci e Porcelli, 1999, 12)

Calvani fa un ottimo riassunto delle teorie sull’apprendimento, completando il grafico che si riporta qui sotto (Calvani 2009, 16):

Calvani

Il grafico è costituito da due forme sferiche poste una all’interno dell’altra. Nella linea interna troviamo i punti cardine sui quali si reggono le varie teorie dell’apprendimento, mentre sulla linea esterna troviamo i principali sostenitori di quelle teorie. Ad esempio partendo dall’estrema sinistra, in corrispondenza della teoria della pluralità dei punti di vista troviamo i nominativi di Spiro e Feltovich, scendendo sulla linea verso il basso rispettivamente alla teoria dell’autostima troviamo Rogers e così via.

In questa sede non si ha spazio per analizzare a pieno tutte le teorie psicologiche e cognitive che hanno contribuito alla vasta letteratura che si ha oggi a disposizione, ma si vuole rilevare che gran parte di esse mostra dei punti in comune secondo cui l’apprendimento si svolge secondo più fasi, passa attraverso stimoli esterni, fa strettamente parte dell’individuo ed è influenzato da componenti psicologiche e sociologiche. Il riconoscimento delle fasi e l’idea del rinforzo in apprendimento si devono alla scuola Skinneriana[3](ovvero comportamentista) e al cognitivismo[4], mentre quello degli stimoli esterni alla Gestalt[5]. La centralità dell’individuo è strettamente propugnata dalla scuola di pensiero costruttivista che porta alla luce la rilevanza del rapporto con le preconoscenze del singolo e da autori come Rogers e Bandura (apprendimento e relazione tra autostima e autoefficacia).

Knasel, Meed e Rossetti fissano quattro punti fondamentali sull’apprendimento. Il primo è che esso è un processo continuo, in quanto tutti impariamo (e dis-impariamo) in continuazione; il secondo è che l’apprendimento è un processo attivo (cioè qualcosa che si fa e non che si subisce); il terzo è che è una cosa che tutti sappiamo fare; il quarto è che importante (Knasel et. al. 2002, 15-20).

Ritengo sia giusto porre questi quattro principi all’inizio di questo capitolo poiché sono il fondamento di tutti i concetti e le teorie che si analizzeranno di qui in avanti.

In merito al primo punto è importante focalizzarci su come l’apprendimento sia innanzitutto un ‘processo’ nel senso pieno del termine, in altre parole un procedimento che interessa diverse fasce d’età e diverse aree (della vita, della persona).

L’apprendimento non è un processo qualsiasi ma ‘continuo’ ovvero un work in progress perenne, un qualcosa di mai portato a termine in maniera definitiva.

Il secondo punto, forse, quello più vicino all’idea di questo capitolo, è che questo processo continuo è anche e soprattutto ‘attivo’. Attività in ambito di didattica con le piattaforme significa che sia il discente sia il didatta sono in un ruolo mai passivo, ovvero esplicano i loro bisogni e le loro necessità collaborando a un fine comune. In tal senso, anche l’insegnamento delle lingue si esplica in un processo continuo e non ‘stagionato’ come poteva essere l’approccio tradizionale (o ex cathedra) all’insegnamento. L’idea che sta dietro all’attività di questo processo è che il discente rielabora ogni singolo input (o stimolo cognitivo) che trae e nota dalla didattica con piattaforma. Nel far questo, come si vedrà anche più in avanti, il soggetto compie un’azione che scaturisce dalla propria motivazione a imparare. La motivazione fa parte di uno dei pensieri e progetti più intimi del singolo discente ed è pertanto strettamente soggettiva. La motivazione è una vera e propria fase nell’unità didattica stessa[6]. Sempre Knasel, Meed e Rossetti sostengono che vi sono quattro tipologie di motivazione all’apprendimento: reattive, proattive, estrinseche e intrinseche (Knasel et. al. 2002, 35-36). Le motivazioni reattive scaturiscono da una reazione agli eventi esterni; mentre le proattive cercano di prevenire o pianificare l’andamento degli eventi esterni. Le motivazioni estrinseche emergono quando il soggetto apprende al fine di arrivare a un certo traguardo, diverso dall’apprendimento stesso (es. iscriversi all’università al fine di esercitare la professione di architetto); mentre le motivazioni intrinseche sono quelle che spingono il soggetto ad apprendere per il semplice piacere dell’apprendimento stesso (Nobili 1981, 15). Nobili afferma che le motivazioni estrinseche si possono suddividere a loro volta in ‘strumentali’ (ovvero tendenti a fini utilitaristici) e ‘integrative’ (cioè risultanti dal desiderio di identificarsi con i membri della comunità di cui si fa parte) (Nobili 1981, 16).

Sulla motivazione intrinseca Calvani riprende le idee di Bruner e scrive (Calvani 2009, 27-28): “uno dei metodi più sicuri per indurre lo studente ad affrontare un argomento difficile è quello di fargli scoprire il piacere legato al pieno ed effettivo funzionamento dei poteri derivanti dalla nuova conoscenza”. Porcelli e Dolci parlano del concetto motivazionale in un contesto tecnologico: “il problema che è stato posto da più parti è se l’uso delle tecnologie avanzate sia di per sé un fattore di motivazione” (Porcelli 1999, 32) […] e continuano illustrando anche problemi che sono riscontrati dall’utilizzo delle ICT[7]. Infine affermano: “ci sembra ragionevole – sulla base dei resoconti delle esperienze finora condotte, attendere un responso lontano dai due estremi [ottimisti senza termine (technophilia) e negatori della validità delle tecnologie (technophobic)] e soprattutto non legato alla macchina in sé ma al programma usato (Porcelli 1999, 33). L’autrice di questo lavoro si trova in estremo accordo con quest’ultimo pensiero, in quanto non è (e probabilmente mai sarà) la macchina computer a essere elemento di esclusività, ma l’ergonomia didattica che da essa può scaturire.

Il terzo punto che è introdotto da Knasel, Meed e Rossetti è decisamente condivisibile ed è un cardine per l’apprendimento a tutte le età. Gli studiosi affermano che apprendere non è un’attività che cessa a un certo punto della nostra esistenza e un processo che ogni singolo essere umano è in grado di compiere (Knasel et. al. 1999, 33). Quest’affermazione, che pure può apparire scontata e banale, è, al contrario, estremamente puntuale nel ribadire e scardinare il modello di insegnamento tradizionale, in cui il discente era visto come una tabula rasa, una scatola vuota, da riempire grazie alle conoscenze enciclopediche e materiali del docente. Tutti imparano significa che anche il didatta è discente e che anche il discente è didatta in alcuni momenti dell’UD. Vedremo meglio nel capitolo 3 come questo processo (che è talvolta macchinoso da realizzare in aula) può essere portato a compimento attraverso la piattaforma.

Il quarto e ultimo punto è il sottolineare l’importanza di tutto ciò che riguarda l’apprendimento. Il fatto che questo lavoro di tesi sia orientato a questa tematica ovviamente fa eco a questo principio, che tuttavia non va sottovalutato. In questo momento storico sempre più spesso assistiamo a discorsi più o meno seri sull’apprendimento e sulla scuola, dove si ritiene l’apprendimento avvenga. Questa chiaramente non è la sede di un dibattito sociologico, tuttavia si vuole far notare come l’elemento importanza non sia da considerare scontato né superato. L’apprendimento, specialmente nel contesto glottodidattico, è importante perché permette a tutti i soggetti di ampliare il proprio bagaglio di conoscenze e capire le ragioni profonde che si celano dietro l’utilizzo di una lingua diversa e il fondarsi di una diversa cultura attraverso quella lingua.

Se davvero si considera l’impatto di questi quattro brevi punti cardine non si può non analizzare in maniera più dettagliata che cosa sia la motivazione ad apprendere una lingua straniera. La motivazione risponde a uno degli assunti più frequenti in glottodidattica, poiché come postula Nobili: “risalire ai fattori motivazionali, prima di allestire un percorso metodologico, appare un imperativo indiscusso. […] La motivazione è considerata una caratteristica differenziale momentanea dell’individuo. Ciò sottintende che la sua insorgenza o le sue diversificate manifestazioni dipendono dall’età, dall’origine sociale e geografica, dalle situazioni vissute (siano esse familiari, lavorative o culturali)” (Nobili 1981, 14). E ancora:

“negli adulti impegnati in un generico processo formativo potranno, secondo la tipologia di Moles, essere individuate le seguenti motivazioni:

  • Promozione sociale (legata sia alla professione sia al cambiamento dello status sociale);
  • Competizione (che corrisponde al desiderio di differenziarsi in una prospettiva elitaria);
  • Tentativo di capire meglio il mondo (bisogno di approfondire e dominare le proprie relazioni con i fattori naturali, storici);
  • Sublimazione degli istinti creatori (bisogno dell’individuo di esprimere, al di fuori del suo lavoro, la sua creatività);
  • Attività ludica (necessità di un gioco intellettuale)” (Nobili 1981, 15-16).

Giunti a questo punto, sarà bene focalizzare la nostra attenzione sull’apprendimento della lingua straniera da parte del discente adulto, non dimenticando quanto detto sopra sugli aspetti teorici e le implicazioni motivazionali. Ci si pongono, quindi i quesiti: chi è il discente adulto? Quali sono le peculiarità del suo apprendimento?

Nobili afferma:

“si sa bene che non esiste un’interpretazione univoca del termine [adulto]: secondo il criterio al quale ci si riferisce (biologico, legale, sociale, psicologico, ecc) si potrà considerare adulto colui che ha ultimato la crescita, che è maggiorenne, o economicamente indipendente, o maturo, ecc. D’altra parte, poiché l’essere adulto non costituisce uno stato ma un processo ne consegue che esistono in ognuno di noi delle ‘maturazioni’ specifiche, non necessariamente stabili, né in sintonia con le altre. […] La polivalenza del significato ci induce a definire la nostra utenza come ‘adulta’ secondo in base all’intreccio di tre criteri:

  1. Biologico (secondo la classificazione Bromley persone dai 21 ai 65 anni);
  2. Psicologico (l’adulto è autonomamente cosciente e deciso ad affrontare senza nessuna spinta costrittiva un certo iter formativo);
  3. Sociale (l’adulto è tale grazie alle accumulate esperienze lavorative, familiari, ecc)” (Nobili 1981, 25-26).

Si desume, pertanto, come le variabili che influiscono sull’apprendimento della lingua straniera (nel nostro caso indagheremo la lingua inglese e tedesca) siano molteplici e sottilmente in relazione tra loro. Per comodità e scorrevolezza, in questo lavoro si considereranno adulte le persone che incarnano i tre criteri posti sopra.

Per quanto riguarda il secondo quesito che c’eravamo posti sopra, in altre parole quali fossero le criticità riscontrabili nell’apprendimento di lingua straniera in età adulta, ci viene incontro il pensiero di Villarini e La Grassa. Nel loro lavoro si concentrano sulla fascia d’età che va oltre i 55 anni (comunemente chiamata terza età), ma presentano alcuni case-study che possono essere interessanti per il nostro scopo. Partiamo con il dire che con l’aumentare dell’età si ha “una riduzione funzionale degli organi periferici, primi tra tutti occhio e orecchio” e che “generalmente si riscontra una diminuzione della capacità di distinguere nettamente gli oggetti ravvicinati e di cogliere sfumature e dettagli dell’immagine; [e] una riduzione dell’ampiezza del campo visivo” (Villarini 2010, 30). Premesso questo, va sottolineato che: “il livello di attenuazioni delle funzioni è estremamente variabile a seconda dei soggetti, sia per intensità sia per età di apparizione” (Villarini 2010, 31); dato per cui non è scientificamente riscontrabile che chi apprenda una lingua straniera in età adulta presenti necessariamente delle caratteristiche fisiche svantaggiose. Vi sono poi da considerare gli elementi attenzione e memoria. A questo proposito Villarini e La Grassa affermano: “ciascun individuo riceve informazioni che passano attraverso un canale unico a capacità limitata; […] sembra che con l’avanzare dell’età il filtro diventi più selettivo nel far passare le informazioni, che sono recuperate in maniera minore” (Villarini 2010, 33) e “affermare che una generale e diffusa perdita di memoria si manifesta dopo una certa età è eccessivamente semplicistico” (Villarini 2010, 35). Effettivamente, secondo studi pubblicati di recente, è stato provato come non ci siano sostanziali modifiche in età adulta (chiaramente su soggetti sani, non colpiti da patologie) della memoria a breve termine e di quella a lungo termine[8]. Per quanto riguarda la memoria di lavoro, è forse l’elemento mnemonico più ‘vittima’ del decadimento a seguito del tempo. Villarini e La Grassa si esprimono in questi termini: “secondo diversi studi è proprio questa memoria quella chiamata in causa nel processo di ricezione e, quindi, al calare delle prestazioni della working memory diminuisce la capacità di comprensione di un discorso” (Villarini 2010, 38). Riassumendo, non si riscontrano criticità tipicamente andragogiche, se non quella relativa a qualche cambiamento di natura cognitiva dovuto al mutare dell’accesso alla memoria di lavoro. In effetti, quando si valutano gli effetti postumi al periodo critico[9], gli studiosi riferiscono: “nel complesso è possibile affermare che la ricerca scientifica non sia ancora riuscita a far pienamente luce su tutti gli aspetti relativi all’esistenza e alla natura del periodo critico e sui reali problemi che esso comporta nell’acquisizione della L2 da parte di apprendenti adulti” (Villarini 2010, 46). Come sostiene una delle più eminenti voci in campo linguistico, Noam Chomsky:

“in primo luogo ‘parlare una lingua’ e altre capacità cognitive umane non ricadono nell’ambito della ricerca naturalistica; in secondo luogo, non si potrebbe imparare nulla sul significato (e quindi su un aspetto fondamentale del parlare una lingua) a partire dallo studio di configurazioni e processi neurocerebrali” (Chomsky 2005, 72)[10].

Prendendo nota di quanto detto sinora, è di fondamentale importanza sottolineare che l’apprendimento/insegnamento della L2 avverrà in maniera empirica seguendo il modello di Unità Didattica fornito nel cap. 1. Sulla concezione di lezione in andragogia vi è stata una forte spinta negli anni ’50-’60, quando si cercava il più possibile di alfabetizzare la popolazione adulta e cercare di renderla consapevole dei processi della lezione stessa. Alcuni lavori risulteranno, pertanto, datati e non molto inclini al discorso tecnologico che si vuole instaurare in questo lavoro. Alcuni fondamenti di base sono, però, tuttora validi, come sottolinea Peternolli: “il corsista deve essere in grado di utilizzare le abilità [linguistiche] acquisite in maniera permanente, nella sua realtà quotidiana, senza sforzo o in maniera meccanica, bensì con un procedimento naturale” (Peternolli 1982, 140).

È esattamente il concetto che riprende anche Castagna, quando discute dei limiti e dei vantaggi insiti nella lezione. I primi sono di: 1) poter insegnare solo nozioni, concetti e principi, 2) l’ascolto rappresenta un’attività faticosa (si rimanda a quanto detto sopra), 3) il solo ascolto implica una bassa memorizzazione, 4) è difficile percepire in ogni momento i livelli attentivi degli alunni. I vantaggi sono invece: 1) la lezione è efficiente, 2) è effettivamente economica in termini di denaro, 3) instaura processi di aspettativa, di partecipazione e di collaborazione nei discenti (Castagna 2001, 14).

Due basi teoriche a supporto della glottodidattica con le piattaforme: Instructional Design e Cognitive LoadTheory

Due teorie che non trovano esattamente posto nel grafico[11] delle quali si vorrebbe tenere conto in questo lavoro sono quelle dell’ID (Instructional Design) e il CLT (Cognitive LoadTheory).

Calvani esplica così la teoria dell’ID: essa sta nel trovare dei modelli d’istruzione che identifichino i metodi adeguati, affinché l’apprendimento risulti efficace (capace di raggiungere gli obiettivi che si propone), efficiente (cioè in grado di raggiungerli con accettabile impiego di risorse) e appealing (con capacità di alimentare emozioni positive, motivazioni e disponibilità a ulteriore avanzamento) (Calvani 2009, 38-39). Questa definizione è, vista in prospettiva tecnologica, esattamente il continuo di ciò che si accennava nell’introduzione del lavoro di questa tesi, cioè che non esiste (e non potrà probabilmente mai esistere) un solo e unico modello istruttivo che valga per ogni singolo didatta e ogni singolo discente. Questo perché, come detto sopra, vi sono innumerevoli variabili che influiscono sull’apprendimento, molte delle quali strettamente soggettive. In quest’accezione bisognerà trovare la strategia migliore possibile e sarà necessario rivederla di volta in volta, di classe in classe.

L’ Instructional Design si ripropone dal punto di vista didattico (delle lingue straniere e di altre discipline) di non seguire una stretta osservanza formale delle fasi. Alcuni criteri dei quali l’insegnante deve tener conto nel ‘fare’ il proprio metodo sono secondo Calvani: il contesto socio-istituzionale, la natura dell’obiettivo, la durata dell’istruzione, la perizia dell’allievo (Calvani 2004, 41-42). Questi criteri sono denominati ‘principi d’istruzione’ ovvero Instructional Principles (Calvani 2004, 49). Riportando questi criteri base, Calvani di fatto commenta e sviluppa l’idea di Merrill, che è teorizzata partendo da modelli rigorosamente pratico-pragmatici. Di nuovo, sarà compito del didatta selezionare e porre l’accento su alcuni di questi criteri, lasciandone o aggiungendone altri, secondo il discente con cui si troverà a dover collaborare. Si noti l’utilizzo del verbo collaborare in concomitanza del compito da svolgersi, poiché il lavoro in aula (e fuori) non è da attribuirsi a un solo attore attivo, ma, come si sostiene anche sopra, a due o più interlocutori.

La Teoria del Carico Cognitivo (Cognitive Load Theory) o CLT nasce negli ultimi decenni in Australia, presso l’università degli studi di Sydney. In essa diversi autori[12] postulano che qualunque sia il metodo glottodidattico favorito dall’insegnante, esso debba tenere conto (per risultare efficace) del carico cognitivo al quale si sottopone il discente e in quali termini possa risultare efficiente in termini di dispendio di energie cognitive da parte del didatta[13]. Secondo questi autori, in effetti, molte parti dei vecchi modelli non potevano funzionare non perché non in linea con un buon programma, ma perché richiedevano al discente carichi cognitivi non in linea con la sua programmazione/ motivazione. Secondo questa teoria, infatti, sono i processi neurologici e biologici nei discenti che devono essere razionalizzati e ‘facilitati’. In questo consistente procedimento, Calvani riconosce che esistano due tipi di carico cognitivo: estraneo e intrinseco. Li spiega con queste parole:

“Il carico cognitivo estraneo riguarda tutte le forme di lavoro cognitivo che per vari motivi sono imposte alla memoria di lavoro [working memory] senza che abbiano la funzione di contribuire all’apprendimento desiderato. Rappresenta un punto fondamentale per l’istruzione ridurre il carico cognitivo estraneo […]” (Calvani 2009, 45).

E ancora: “molti metodi istruttivi non tengono conto di questo fattore e presentano criteri che fanno uso di contenuti ridondanti, non pertinenti con l’apprendimento, che producono pertanto dispersione o scissione dell’attenzione” (Calvani 2009, 48-49). Attivando un canale tecnologico, ovviamente, bisogna tenere bene a mente quanto detto sinora e verificare se, effettivamente, questo canale non risulti dispersivo per il discente adulto e non dipani inutilmente e scioccamente i filtri attentivi dello studente. L’altra metà del carico è detto intrinseco. Esso è “il carico di lavoro cognitivo imposto da un determinato compito, dovuto alla sua naturale complessità: è un aspetto interno al contenuto da apprendere o al problema da risolvere” (Calvani 2009, 45). Questa volta, si tratta precisamente del carico ‘buono’, di quello che veramente sarà poi l’apprendimento fruttifico del discente. Un po’ come per il colesterolo umano, insomma, nel quale una parte è necessaria e fa bene all’individuo, mentre una parte può, se non controllata entro certi termini, favorire l’insorgere di disturbi e va, perciò, eliminata. Questo carico cognitivo ‘positivo’ per così dire prende il nome di pertinente in letteratura (detto anche germane). L’esperienza dell’alunno gioca qui un ruolo importantissimo: a seconda di essa il carico cognitivo intrinseco richiesto potrà essere più o meno alto.

Un altro aspetto da valutare nell’ambito della CLT è che sta nelle mani del didatta comprendere quando il carico cognitivo intrinseco che si domanda all’alunno sia troppo alto (in tal caso esistono delle tecniche, come il chunking, cioè lo spezzettamento o il sequencing, cioè la creazione di fasi di minore durata o di minore sforzo) ed è perciò da considerare il notevole sforzo che l’adottamento di questa teoria richiede in termini di attività di insegnamento. Si richiede al docente, quasi paradossalmente, molte più competenze, capacità e velocità d’analisi e padronanza della classe.

Calvani precisa che:

 “sono stati individuati diversi effetti. Due sono […] l’attenzione divisa (split attention) e la modalità. Il primo riguarda una situazione di carico cognitivo estraneo che si presenta quando l’attenzione è costretta a fare i conti con molteplici fonti che richiedono di essere reciprocamente integrate […]; ad esempio se un grafico è accompagnato da una spiegazione testuale dove il testo non è collocato in prossimità con gli elementi della figura cui si riferisce” (Calvani 2009, 47).

L’effetto di modalità, sempre secondo l’Autore, è:

“il principio per cui degli oggetti grafici complessi che devono essere accompagnati da una spiegazione sono più efficacemente compresi quando si assimilano a un testo audio anziché a un testo scritto, in quanto la memoria di lavoro può decodificare gli stimoli in due aree cerebrali distinte; usare due sistemi congiuntamente consente una maggiore efficienza” (Calvani 2009, 48-50).

Nella ricerca di una decodifica di quanto detto sopra interviene il lavoro di Gerjetse Hesse[14]:

Fig2

Il Carico di Lavoro Cognitivo

Questo modello è di fondamentale importanza per spiegare in breve che cos’è la Teoria del Carico di Lavoro Cognitivo, tuttavia, come andremo ad analizzare più avanti, necessita di alcune modifiche per essere applicato a pieno in questo lavoro che vuole applicarsi alla glottodidattica.

Suddividendo la figura notiamo tre fasce, quella a sinistra, la fascia centrale e quella a destra. Partendo dalla fascia a sinistra, dove troviamo un certo ambiente di apprendimento, una certa expertise e preconoscenza (o data una certa enciclopedia[15]) si arriva alla fascia centrale che riguarda l’attività dell’allievo (con particolari configurazioni degli obiettivi e strategie di elaborazione). Le conoscenze enciclopediche influiscono in maniera diretta e univoca anche sul carico cognitivo intrinseco (il rapporto che intercorre tra le due è indirettamente proporzionale, in altre parole all’aumentare delle informazioni possedute si avrà un minore ‘sforzo’ cognitivo e viceversa). In questa sede si vorrebbe anche sottolineare che, forse, non è del tutto vano ipotizzare che la freccia che collega Enciclopedia e Sforzo intrinseco possa anche andare in direzione delle preconoscenze, poiché nel recuperare informazioni possedute, talvolta, subentrano dei meccanismi psicologico-emozionali che impediscono al soggetto di giungere come vorrebbe all’informazione, purché posseduta. Proseguendo verso il basso del grafico a sinistra possiamo notare come la complessità intrinseca dei materiali proposti va a influire direttamente nel carico cognitivo intrinseco. Nella parte centrale, quando si parla di attività degli allievi si deve tener conto di tutto il lavoro cognitivo (estraneo, intrinseco, pertinente), ma anche alle varie tipologie di memorie che si chiede allo studente di utilizzare (working memory in primis). Sappiamo infatti che vi sono diversi rami di memoria implicati nell’apprendimento (a breve termine, a medio termine, a lungo termine) e che ognuna di loro può influire sulle nuove informazioni da immagazzinare[16]. Un’ultima analisi va dedicata alla sezione centrale in alto, dove primeggiano le concezioni. Fermo restando che l’autrice di questo lavoro non si trova pienamente d’accordo con queste posizioni (nella didattica ad adulti o comunque in una didattica che si voglia dire collaborativa non può essere la concezione dell’insegnante a stare sopra, anche a livello semiotico, a quella del discente), si vuole proseguire nell’analisi. Nel modello di Gerjets e Hesse non si prende in considerazione questo fenomeno e s’incornicia la concezione del didatta in posizione gerarchicamente sovrastante. L’insieme delle componenti analizzate sinora porta al risultato nella fascia a destra, cioè ai risultati dell’apprendimento. Tuttavia, per quanto si è sostenuto fino a questo momento pare più appropriato fare qualche piccola modifica, sebbene significativa a questo grafico. Il nuovo modello appare come in figura sottostante:

Didattica_0

Il Carico di Lavoro Cognitivo, Revisione

Questo modello pare più consono al fine di questo lavoro, in altre parole a provvedere una glottodidattica orientata a un’audience adulta, sviluppata in un contesto tecnologico, quale quello odierno. Una prima differenza con lo schema di Gerjets e Hesse sta nel livello formale: il modello centrale ha due attori attivi, il didatta e l’alunno, che prima occupavano sì il centro del diagramma, ma parevano inattivi e statici. Un modello a sfera, come quello proposto, invece, crea motricità e si prefigura interattivo (si sottolinea l’importanza dell’interazione). Anche a livello gerarchico, l’optare per questa scelta fa desumere che didatta e apprendente stiano, di fatto, sullo stesso piano e che i ruoli siano un completamento reciproco. Analizzando, poi, la figura dall’estrema sinistra si noti come l’ambiente di apprendimento copra l’intera fascia nella quale si svolge l’apprendimento, arrivando alla fascia in estrema destra, dove vi sono si risultati d’apprendimento, ma parziali. A questo proposito si noti come, a differenza del modello originale, si deve tener conto che ogni nuovo apprendimento, per quanto piccolo o parziale rientrerà a far parte da quel momento in poi delle conoscenze enciclopediche del soggetto apprendente e, pertanto, ci pare una svista porre ‘risultati d’apprendimento’ come dicitura tout court.

Le modifiche essenziali stanno innanzitutto a livello formale, ma, come abbiamo visto sopra, non solo. Le diciture di ogni singola casella sono una rielaborazione del modello del Carico di Lavoro Cognitivo, ma sono poste in comunicazione tra loro (e tra i diversi attori) attraverso l’idea del processo sferico che, a grandi linee, è un circolo potenzialmente ripetibile per innumerevoli volte. Partendo dall’alto a sinistra vediamo che le tre prime variabili che troviamo sono: strategie di insegnamento, motivazione e variabili sociologiche. Gli stili di insegnamento esplicano meglio ciò che nel modello di Gerjets e Hesse era definito come ‘concezione’. Essi sono suddivisi in quattro da Bosworth, Haackenson e McCrackn: stile autoritario, autorevole, supportivo, permissivo (o inesistente)[17]. Questi quattro stili si basano su due criteri, in altre parole le regole e il dialogo tra docente e discente. Uno stile autorevole è quello di chi avrà percentuali di dialogo alte e forti regole, mentre quello autoritario è tipico per chi pone forti regole ed effettua poco dialogo. Se vi è poco dialogo e le regole sono basse lo stile sarà permissivo, mentre se vi è molto dialogo e le regole sono basse si ha uno stile supportivo. Il fattore motivazionale, coerentemente con quello del discente, gioca un ruolo primario anche nel didatta, il quale può essere più o meno incline a svolgere alcune attività di lavoro rispetto ad altre e può mostrarsi più o meno esigente rispetto il buon funzionamento di quelle già poste in essere. Variabili sociologiche quali l’età, il genere, la provenienza geografica o l’appartenenza a una certa classe sociale rivestono una loro importanza e trovano, giustamente, spazio nel grafico proposto. Le stesse categorie appaiono anche nel frame dello studente, a indicare che, ruoli a parte, sono sempre e comunque presenti dei criteri individuali e che bisogna tenerne conto per una buona didattica e per un buon apprendimento. Lo stile d’apprendimento (definito da Gerjets e Hesse come elaborazione) è vario tra gli studenti. In particolare, si ricorda che esistono studenti che possono prediligere certe categorie tra visiva, verbale, uditiva e cinestesica. Questo perché l’apprendimento passa ovviamente attraverso le capacità sensoriali e, a seconda della propria enciclopedia e dell’inclinazione soggettiva, ogni studente tenderà a preferirne (e quindi a lavorare meglio con) una o più di esse.

Continuando l’analisi delle diciture poste in grafico, dalla parte destra del didatta troviamo: attivazione della spiegazione (ovvero l’esposizione di nuovi input) e i materiali. Le due definizioni sono complementari ed esplicano l’idea che per un adeguato carico di lavoro cognitivo le spiegazioni e i materiali proposti debbano sempre tenere conto delle preconoscenze degli allievi e della loro expertise. In ultimo, dalla parte dell’alunno abbiamo le diverse tipologie di carico di lavoro cognitivo (estraneo, intrinseco, pertinente), nonché tutti i parametri mnemonici (memoria a breve termine, memoria a lungo termine e memoria di lavoro). Questi criteri ci interessano in maniera diretta perché nella glottodidattica con le piattaforme (e, più in generale, con la multimedialità) bisognerà stare molto attenti a non caricare troppo il lavoro delle varie memorie e a non dimenticare la presenza del carico di lavoro ‘cattivo’. Calvani infatti afferma: “Per la CLT non si può avere istruzione efficace se non si riesce a orientare l’attenzione dell’allievo in modo che possa gestire il carico cognitivo rilevante all’interno della sua ristretta capacità di memoria” (Calvani 2009, 62). Le capacità attentive rivestono sempre un ruolo fondamentale nell’apprendimento della lingua seconda. Le linee guida che Calvani postula a proposito della CLT sono cinque: a) controllare bene i propri strumenti di comunicazione, b) orientare con cura l’attenzione dell’allievo, c) regolare la complessità in funzione dell’expertise dell’allievo, d) favorire l’apprendimento e il suo trasferimento, e) aiutare gli allievi a sviluppare immaginazione mentale e auto-spiegazione (Calvani 2009, 56-70).

Ciò che emerge da questo quadro teorico fa comprendere quanto sia auspicabile ambire ad un’educazione linguistica permanente e quanto questa possa giovare a qualsivoglia età, poiché implica lavoro a tutti i livelli psico-cognitivi e si qualifica come apprendimento profondo e trasversale.

teorie_cognitive_e_adult_learning.pdf
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[1] Il progetto Lifelong Learning fa capo ad uno dei precetti fondamentali dell’Unione Europea. Si tratta, sostanzialmente, della formazione della persona durante l’arco di tutta la vita e non solamente in età di scolarizzazione obbligatoria. Questo progetto è attuato mediante programmi di durata settenaria e l’ultima tranche avrà termine in data 31/12/2013.

Per una conoscenza più approfondita si rimanda alle pagine web: http://it.wikipedia.org/wiki/Lifelong_learning ; http://www.treellle.org/files/lll/quaderno_9.pdf ; http://www.programmallp.it/index.php?id_cnt=30

[2]Citazione ripresa da Principles and Practice in Second Language Acquisition, Krashen, 1987

[3] Per approfondimenti si rimanda alla pagina http://en.wikipedia.org/wiki/B._F._Skinner. Le pubblicazioni di quest’autore sono piuttosto prolifiche, forse le più conosciute e le più utili ai fini di questo lavoro sono i volumi VerbalBehaviour del 1957 e The Technology of teaching del 1968.

[4] La scuola cognitivista è ricca di nominativi illustri e degni di nota. Si vedano i lavori di George Armitage Miller, Ulrich Neisser e, in anni più recenti, Albert Bandura.

[5] La scuola psicologica della Gestalt (parola che in lingua tedesca significa forma, rappresentazione) si sviluppò negli anni ’40 negli Stati Uniti. È, per semplificare, la diretta concorrente della teoria del comportamentismo e si radica nelle opere di autori quali P. Guillaume, W. Köhler, M. Werteheimer.

[6]A tal fine si rimanda al paragrafo 1.2.

[7] L’acronimo ICT sta per l’inglesismo Information & Communication Technology, ovvero Tecnologie per l’informazione e la comunicazione.

[8] Per approfondimenti si vedano Laicardi e Pezzuti, 2000 e Pesci e Fiore, 2002. 

[9] Per Lennenberg (1967) il periodo (o età) critico è il periodo di vita del soggetto oltre il quale si riscontra l’impossibilità da parte di chi studia una lingua straniera di ottenere una perfetta competenza. In genere esso è associato al termine dell’età puberale.

[10] Titolo originale del testo: ‘New horizons in the Study of Language and Mind’.

[11] Cfr. Fig. 2.1

[12] Si veda ad esempio il lavoro di Chandler e di Sweller, 1991

[13] Per approfondimenti si vedano Sweller, 1991; Calvani, 2004 e 2009; Moreno e Mayer, 2001.

[14]Gerjets P. et Hesse F. (2004), The role of learner activities and of student’s conceptions of educational technology, “International Journal of Education Research” vol. 41 n.6, pp. 445-465. 

[15] Con il termine enciclopedia ci si riferisce agli studi realizzati in ambiente cognitivo, dove s’intendono tutte le conoscenze possedute fino a quel momento dal discente, siano esse spaziali, grammaticali, fonetiche, ecc.

[16]Per approfondimenti sul lavoro cerebrale a livello di memoria e le implicazioni di quest’ultimo in glottodidattica si vedano: Cardona, 2010; Balboni, 1999 e l’articolo della dott.ssa Naldini all’indirizzo web www.edizionicf.unive.it/index.php/ELLE/article/view/341/311

[17] L’articolo si trova sul Journal of Technology and Teacher Education, vol. 5, 4a edizione del 1997. Si veda anche il lavoro svolto da Renzo Tucci, disponibile all’indirizzo http://www.istruzionefc.it/public/articoli/allegati/tucci27gennaio2012i… [06/11/2013]

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Commento

Gent.ma dott.ssa Montella, 

La ringrazio per il suo feedback e la preziosa bibliografia che suggerisce, devo ammettere che effettivamente diversi dei titoli che Lei contempla sono stati oggetto di studio e approfondimento anche da parte mia nello sviluppo di questo e altri materiali, nonché della mia formazione personale. 
Interessante come alcune costanti siano davvero irrinunciabili nella formazione di tanti. 
Lieta di averla interessata, rimango a disposizione qualora necessitasse di chiarimenti o volesse solo “chiacchierare”! :) 
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Gent.ma dott.ssa Montella, 

La ringrazio per il suo feedback e la preziosa bibliografia che suggerisce, devo ammettere che effettivamente diversi dei titoli che Lei contempla sono stati oggetto di studio e approfondimento anche da parte mia nello sviluppo di questo e altri materiali, nonché della mia formazione personale. 
Interessante come alcune costanti siano davvero irrinunciabili nella formazione di tanti. 
Lieta di averla interessata, rimango a disposizione qualora necessitasse di chiarimenti o volesse solo “chiacchierare”! :) 
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Un ottimo studio. Grazie. 
Fornisco una bibliografia di riferimento:

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Balboni, P., E., (2013), Fare educazione linguistica, Torino, UTET. 
 
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