European Commission logo
Accedi Crea un account
Puoi selezionare più parole separandole con la virgola

EPALE - Piattaforma elettronica per l'Apprendimento permanente in Europa

Blog

"Oltre i bisogni: l'accoglienza della esigenze. Alla ricerca di un approccio integrato e più umano"

Conferenza Escapes - laboratorio di studi critici sulle migrazioni forzate - 2017, intervento per il panel n.1. Escapes, Laboratorio di Studi Critici sulle Migrazioni Forzate, istituito presso l’Università degli Studi di Milano – Dip. di Scienze Sociali e Politiche, Dip. di Filosofia, Dip. di Scienze della Mediazione Linguistica e di Studi Interculturali. Intervento per il panel n.1 "Lavorare nel sistema di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati". Parma, 8-9 giugno 2017

di Sara Forcella


La situazione dell’accoglienza ai migranti in Italia e lo stato dei servizi erogati all’interno dei due circuiti attualmente in funzione, la rete nazionale degli SPRAR e i centri di accoglienza “straordinaria” tra cui si annoverano i CAS, sono ben noti a coloro che lavorano nel settore. Parimenti, gli addetti ai lavori sono consapevoli, o almeno dovrebbero esserlo, dei limiti, delle mancanze, così come dei punti di forza e delle potenzialità inespresse delle strutture di accoglienza. Le possibilità, la qualità e la varietà degli scenari sono tanti quanti i centri stessi, con condizioni ben diverse tra una regione italiana e l’altra. Con questo nostro intervento cerchiamo di proporre un approccio all’accoglienza alternativo e lungimirante, ossia capace cioè di immaginare i benefici reali che un sistema qualitativamente differente può apportare alle persone nel tempo, attraverso una modalità di lavoro immediatamente spendibile e riproponibile ad infinitum, che potrebbe e dovrebbe, secondo noi, diventare la regola di qualsiasi forma di accoglienza.


Partiamo col dire che avendo lavorato a lungo e in diversi centri di accoglienza, abbiamo potuto notare la tendenza comune alla marginalità, e comunque la non centralità, di tutto quanto esuli dalla responsabilità delle strutture di assicurare i bisogni materiali minimi. La gestione dei CAS, ma in qualche caso anche degli SPRAR sebbene in misura differente, è incentrata, se non limitata, a garantire la cosiddetta soddisfazione dei bisogni: mangiare, dormire, lavarsi, vestirsi. Spesso per mancanza di mezzi adeguati, sforzi ed energie sono convogliati soprattutto nell’erogazione dei servizi essenziali. Si ha la sensazione che ogni progettualità venga percepita come un di più, un’attività a cui dedicare le risorse a disposizione per quello che si riesce a fare.
Tuttavia, una volta assicurate le condizioni di salute, forniti i beni di prima necessità ed espletate le pratiche burocratiche di cui si fanno carico i centri, ossia nel momento in cui fame e sete non rappresentano più un problema, l’attenzione andrebbe portata su altri aspetti più profondi, che aiutino la persona a ricreare una quotidianità perduta fatta di rapporti umani, di momenti di svago, di una innata o rinata curiosità verso una realtà circostante che ha da qualcosa da offrire, dalla quale si può prendere o alla quale si può personalmente contribuire, in quella dialettica osmotica che è lo scambio tra esseri umani.


Nelle considerazioni che andremo a fare ci baseremo sull’esperienza, per così dire pilota, avuta in un CAS dove sono ospiti 80 persone, tutte di sesso maschile. La chiusura della scuola di italiano è stata la spinta a cercare altre strade che permettessero di sviluppare il filo di rapporto nato con i ragazzi all’interno della stessa, con l’obiettivo di creare nuove occasioni di stare insieme e contemporaneamente stimolare, in ciascuno, un “andare verso” quel contesto umano e culturale altrui troppo spesso ignorato, messo da parte e sconosciuto.
L’esperimento avviato nella struttura in questione è partito da queste premesse. Dopo aver visto che la sola soddisfazione dei bisogni non bastava, ci siamo chiesti se non fosse il caso di occuparci di quelle che lo psichiatra Massimo Fagioli ha chiamato esigenze.1 Ossia, di tutta quella serie di attività apparentemente di utilità minore o di alcuna utilità pratica, che rappresentano la base di una vita che possa chiamarsi propriamente umana. Una vita non limitata al soddisfacimento dei bisogni fisici, ma che si rivolga a quel mondo personale ed “altro” fatto di affetti, relazioni e sogni di cui nessuno può fare realmente a meno e senza il quale lo sviluppo totale della persona e la possibilità di raggiungere un ben-essere reale non sono pensabili. Una vita che includa, oltre il lavoro necessario alla sopravvivenza, la possibilità di coltivare i propri interessi personali e mirare alla qualità dei rapporti umani che ci si trova a vivere. La questione delle esigenze dello psichiatra Fagioli2 è un pensiero a cui guardiamo come ad un riferimento costante per sviluppare un’idea di accoglienza diversa poiché fornisce, a nostro avviso, la base teorica di quel concetto generale di approccio “emancipante” indicato dal manuale operativo del sistema SPRAR e che si differenzia dall’approccio assistenziale.3


Difficile, però, portare l’attenzione di chi gestisce l’accoglienza sul discorso, intangibile, delle esigenze, sull’importanza di quel tempo che è personalissimo, una dimensione interna in continuo sviluppo che determinerà la qualità della vita che ciascuno avrà, la sua maggiore o minore libertà, la possibilità di reagire, interagire e trasformare la realtà circostante. In questo senso, i primi mesi dell’accoglienza hanno un ruolo fondamentale, è il momento delicato in cui le speranze possono trovare certezze o essere, ancora, deluse. E’ il momento in cui bisogna restituire alle persone in arrivo una normalità che darà loro la serenità necessaria a fare le proprie scelte, a capire un sistema nuovo, una burocrazia che, se non ben compresa per quello che è, una macchina amministrativa lenta e in sofferenza, diventa l’ombra di una persecuzione della quale ci si sente vittime, senza possibilità di reazione alcuna. Tanto determinante per il futuro dei migranti è questo primo periodo in cui lo slancio, le aspirazioni che hanno portato alla decisione di partire sono ancora forti ed energiche, non ancora provate dalle lunghe attese dall’esito incerto: intraprendere il percorso giusto in questo momento, orientarsi verso ciò che c’è da fare per iniziare a costruire nell’immediato la propria autonomia è quanto salva dalla frustrazione di una realtà indubbiamente deprimente, quanto aiuta a mantenere la presa sulle proprie speranze senza smarrire qualcosa di sé, nel tempo dell’attesa.


Abbiamo allora iniziato a pensare ad un progetto diverso che potesse fornire degli stimoli in più alle persone: stimoli intelligenti legati alla proposta di eventi, per lo più culturali, selezionati accuratamente secondo l’interesse che prevedevamo potessero suscitare nei ragazzi, in media tra i 20 e 35 anni, ed in base a quanto proponevano in termini di riflessione su temi a carattere universale, riguardanti perciò tutti noi come esseri umani che vivono i rapporti con gli altri. Il filo rosso che unisce tutte le attività organizzate vuole rimandare, sempre e comunque, un’idea sostanziale di uguaglianza. L’abbiamo cercata a lungo questa idea di uguaglianza indiscutibile, senza contraddizioni, per poi fonderla ad ogni incontro, ogni scambio tra noi i ragazzi, e rimandarla loro costantemente ad ogni occasione. Un’idea forte che per essere tale non doveva basarsi sull’acquisizione di diritti e doveri, su questioni di cittadinanza o su principi giuridico-morali-religiosi, ma collocarsi al primo momento della vita umana. Volevamo tornare a quel “Tutti gli uomini nascono liberi ed uguali…” della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Lo psichiatra Fagioli ci spiega anche il perché, per la biologia che ci accomuna nel modo in cui veniamo al mondo, momento in cui si forma la realtà fisica e psichica di ciascuno, e che ci fa tutti necessariamente uguali. E così, il colore della pelle diventa un dettaglio.


A questo filo se ne unisce un secondo, ossia la questione della diversità culturale, un concetto sempre un po’ rischioso, perché tende a fare di tutta l’erba un fascio. Come dice il genetista Barbujani, “C’è un paradosso: mentre la biologia abbandona la visione razziale perché ha capito che ogni gruppo umano comprende individui molto diversi, con caratteristiche che si sono evolute attraverso scambi e commistioni, una visione simile sta affiorando in ambito culturale. E così nascono forme di razzismo più sottili, secondo cui quello che ci separerebbe dagli altri non starebbe magari nei geni, ma nei nostri schemi culturali, che però sarebbero profondamente radicati e sostanzialmente immutabili.”4 Noi pensiamo che se le differenze si legano a fattori geografici e socio-culturali, sono soprattutto la storia personale e il vissuto del singolo, unici, a costituire la diversità: una dimensione, perciò, esclusivamente individuale che tuttavia, nascendo da un’uguaglianza di fondo, entra in gioco, nella dialettica tra identità umane, solo in un secondo tempo. Un rapporto sincero e reale è possibile.
Abbiamo sperimentato, forse un po’ azzardando, l’incontro tra alcune espressioni artistiche vicine a noi, al nostro paese, che consideriamo valide e corrispondenti a quell’idea di uguaglianza e diversità che ribadiamo, e gli ospiti del CAS. C’è di più, abbiamo forse avuto l’incoscienza di non selezionare gli eventi in base a quanto potevano capire i destinatari, non abbiamo cercato cose semplici né tematiche specifiche riguardanti la migrazione. Al contrario, sono stati proposti temi forti, complessi, lontani dal loro mondo eppure sempre universali. Non ci interessava insegnare qualcosa, bensì far leva su quella sensibilità che si attiva quando si propongono cose intelligenti, stimoli mirati che abbiano un contenuto di senso. Il rapporto forte e di stima reciproca esistente ha fatto il resto, ha permesso loro di fidarsi e seguirci in questa avventura. L'arte muove qualcosa dentro, fa sentire vivi e dà speranza di cambiamento, perché con la sua bellezza ricorda all'essere umano quanto di più umano c'è in lui, ossia la creatività, che egli solo possiede e che è capacità di immaginare quello che non c'è. Proviamo a pensare quanto sia importante questa capacità nella quotidianità precaria dei migranti. Cosa è successo?


Il primo evento organizzato è stato presso il teatro India di Roma per assistere allo spettacolo No Hamlet Please, incentrato sul tema del viaggio, di una compagnia di attori romani che lavora da anni con i migranti. Per i ragazzi era la prima volta dentro un teatro. Noi abbiamo avuto la conferma di quanto sapevamo già, che le emozioni provate dal pubblico, nelle loro personali espressioni, erano esattamente le stesse. E’ qui che l’uguaglianza, oltre che un discorso astratto, diventa percepibile e comprensibile: si trasforma in un’esperienza vissuta sulla propria pelle di fronte a qualche cosa che commuove, e com(muove) tutti, ognuno a modo suo, dando la misura tangibile della concreta possibilità di comunicare e capirsi grazie a quel fondo comune, quell’umano condiviso che è alla base del sentire di ogni individuo. Proporre ai ragazzi questi eventi è dire che sono alla loro portata, possono accedervi perché hanno anche loro qualcosa da prendere dall’arte, che spesso scavalca, con l’immagine o il suono, le barriere linguistiche. E’ dare un’alternativa, e di che tinta, alla loro routine spesso scandita soltanto dalla consegna dei pasti. E’ andare ad alimentare quel serbatoio interno che ciascuno essere umano ha dentro di sé, e che gli insulti del mondo esterno, le storie difficili e dolorose, gli incontri sbagliati possono man mano fiaccare. Siamo convinti che maggiore è la forza di quel serbatoio, maggiore è la capacità di resistenza degli individui, intesa come possibilità di reagire ed affrontare situazioni di grave difficoltà e incertezza, come quelle che vivono i migranti. Qualcuno si è appassionato al teatro dopo lo visione dello spettacolo, uno di loro ci ha detto: “Maestra, io è questo che voglio fare”.


Dicevamo delle tematiche complesse, delle sfide lanciate nel proporre film di spessore. Tre eventi sono stati organizzati al cinema in questi mesi, con la visione dei film “The Lion”, “Barriere” e “Sole, Cuore, Amore”. Anche in questo caso per i ragazzi era la prima volta. Il cinema è uno strumento potente, ci sono le immagini e i volti degli attori che trasmettono stati d’animo ed emozioni, che permettono di riconoscersi, al di là delle parole, nei personaggi. O di ritrovare un proprio caro, una persona amata, un dolore vissuto e ripensarci su, forse recuperare qualcosa di sé. Qualcuno ha pianto alla fine di “The Lion”, dicendo che era una storia importante quella del ragazzino indiano che ce la fa, nonostante un’infanzia difficilissima e la povertà estrema. Qualcun altro dopo “Barriere”, sebbene fosse un film molto lungo e molto parlato, ha detto: fa bene alla testa, fa pensare. “Sole, Cuore e Amore” è stato invece difficile da mandare giù, per tutti: il tema della dignità del lavoro, la storia di una donna che sembra non riuscire e non poter sottrarsi al suo martirio, era qualcosa di inaccettabile, qui, in Italia. Alla domanda se la volta successiva avessero voluto vedere un film più leggero e divertente, invece di uno triste, la risposta è stata ancora una volta: il film triste, perché fa funzionare la testa. Non possiamo allora non pensare che è come se non stessero aspettando altro: che qualcuno li svegli, che li sproni, dia risposte. Sono solo in attesa di mettersi in gioco.
Ancora, siamo stati alla Galleria di Arte Moderna di Roma, e qui come per il cinema è la potenza delle immagini a parlare da sé. Altra imprese ardua, mostrare Van Gogh e Kandinskij a chi non ne ha mai sentito parlare, o forse no, perché i quadri arrivano in maniera immediata e diretta, e poco importa chi li ha fatti. Se all’inizio il nudo di Ercole e Lica del Canova nella prima stanza aveva generato fastidio in alcuni dei musulmani, abbiamo provato a portare l’attenzione sulla storia del mito raffigurato, perché i particolari fisici della statua perdessero il valore che loro gli attribuivano. Invece di andare via sono rimasti, e sono andati alla ricerca delle immagini che sentivano loro, con le quali trovavano una corrispondenza, scoprendole nei quadri di Segantini e nei suoi paesaggi campagnoli, che ci hanno detto ricordavano il loro Pakistan. Tra un quadro e l’altro nasce una domanda intelligente, una riflessione. Qualcuno nota una serie di dipinti con donne dagli occhi bui e senza pupille, è Modigliani, e ci chiede perché. Un altro vede la battaglia di Dogali del Cammarano, è lo spunto per parlare degli Italiani in Eritrea. C’è curiosità, si parla delle opere in Africa. Da chi non ti aspetti viene fuori una sensibilità particolare per la pittura, oppure un interesse segreto che aveva coltivato nel suo paese. Rimane nella mente un’immagine, un’esplosione di colore che forse sarà d’aiuto al rientro nel centro di accoglienza, in un momento complicato, nell’ennesima attesa dell’esito del ricorso, dopo il diniego ricevuto.


Ogni evento è stato contestualizzato prima di avere luogo, e ha visto talora nascere una piccola riflessione successiva con chi aveva esigenza e voglia di parlarne, lasciando gli altri ad ascoltare e raccogliere qualche pensiero rimasto sospeso nello sguardo.
Il viaggio per raggiungere il luogo si è pianificato insieme, si è fatto insieme sui mezzi pubblici e si è cercato di ricostruirlo successivamente perché tutto è utile per conoscere il territorio e perché, se vorranno, i ragazzi potranno da soli ricercare quella realtà diversa dal loro quotidiano scoperta con noi. A supporto delle attività e per una maggiore facilità di comunicazione, nonché perché ormai siamo nell’era dei social network che i ragazzi utilizzano costantemente, è stato creato un gruppo Facebook ad accesso limitato allo scopo di comunicare, commentare e scambiare foto.
Parlavamo all’inizio di lungimiranza. Ed infatti, gli effetti degli incontri non sono diretti, quantificabili, immediati. Ma si misurano nel tempo, in termini di una maggiore apertura verso l’esterno, di possibilità di comunicare con gli altri con minor diffidenza e timore, di potersi muovere più agilmente conoscendo il territorio in cui si vive. Si viene pian piano a strutturare una rete di luoghi familiari, di contatti che inevitabilmente innescano cambiamenti nella quotidianità routinaria iniziale dei migranti.
Degli 80 migranti ospitati presso il centro, all’incirca 20-25 hanno partecipato alle iniziative, tendenzialmente coloro che avevano frequentato la scuola di lingua italiana. Tutte le attività descritte si sono concluse lo scorso aprile 2017.


Concludiamo con un’osservazione importante. Nonostante l’apparente inutilità, o comunque l’aspetto non prioritario, del prendere parte ad attività di questo tipo, il gruppo di ragazzi formatosi non ha mai saltato un solo incontro. Ci saremmo aspettati dopo le prime volte un passo indietro, una stanchezza che avremmo peraltro potuto comprendere e che avrebbe convogliato le loro energie su necessità più pressanti. Questo dato, oltre ad averci fatto enormemente piacere, ci ha rivelato che eravamo sulla strada giusta. Forse possiamo pensare che i ragazzi abbiano percepito che partecipare li aiutava a restare "svegli", o magari semplicemente restituiva loro un momento di svago, una situazione piacevole in compagnia che fa stare bene. Di sicuro sanno che potevano trovare qualcosa di più e di nuovo, che è meglio alzarsi e andare a vedere quel film strano o quello spettacolo buffo, piuttosto che rimanere a letto tutto il giorno. Si sono fidati.
Siamo consapevoli che queste attività da sole non bastano. Ciononostante, se immaginiamo per un momento il potenziale di un intervento ad ampio raggio mirato alle esigenze interne delle persone, unitamente ad un funzionamento quantitativamente e qualitativamente sodisfacente dei servizi di base e non e alla sistematicità dell’insegnamento della lingua italiana, il cambiamento delle condizioni dei migranti nei centri potrebbe essere significativo. Le conseguenze? Forse un miglioramento sostanziale delle loro vite per il
tempo in cui orbitano nell’accoglienza, una serenità maggiore ed una tranquillità che è speranza per il proprio futuro. Ridotte le paure per l’incertezza del domani e interrotta la routine aberrante del quotidiano le persone impiegherebbero il tempo per altro, concentrerebbero le loro energie per realizzare loro stesse. Quella che adesso è la realtà di una parte, la caparbietà di taluni che riescono nonostante le difficoltà ad uscire dal circuito dell’accoglienza e rifarsi una vita in piena autonomia, diventerebbe possibilità di tutti. L’accoglienza non è un sistema meritocratico, non può esserlo se non vuole essere razzista: non deve imputare colpe e dichiarare fallimenti, poiché le condizioni di partenza non sono mai le stesse. Ogni persona ha la propria storia e reagisce agli insulti esterni in maniera diversa. Il diritto ai bisogni e alle esigenze è di tutti. Cominciamo da qui, da questa speranza-diritto ad una vita dignitosa e magari ricca di passioni ed aspirazioni che dobbiamo sostenere, e che si oppone all’abbrutimento delle persone perché pretendano per loro stesse una qualità di vita migliore.

 

1 Cfr. Massimo Fagioli, Bambino Donna e Trasformazione dell’Uomo, Roma, L’Asino D’Oro, 2013, pp. 122-123

2 Cfr. Massimo Fagioli, “Non ci Sono Razze. Per gli Esseri Umani l’Uguaglianza è Assoluta” in Left, n.29, 16 luglio 2016
3 Manuale Operativo per l’Attivazione e la Gestione di Servizi di Accoglienza Integrata in Favore di Richiedenti e Titolari di Protezione Internazionale e Umanitaria, a cura del Servizio Centrale del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, settembre 2015, p.6. Disponibile all’indirizzo: http://www.sprar.eu/images/SPRAR_-_Manuale_operativo_2015.pdf (ultimo accesso: 11 giugno 2017)
4 Guido Barbujani, “Culture, Razze, Confini” in Il Manifesto, 27 maggio 2017. Disponibile all’indirizzo: https://ilmanifesto.it/culture-razze-confini/ (ultimo accesso: 11 giugno 2017)

Likeme (1)
Etichette